Giù il sipario. La farsa non funziona più

di Marcello D’Addabbo

La vittoria elettorale degli indipendentisti catalani non offre di certo nuova polvere ai cannoni della rivolta contro l’eurocrazia. Ma al netto delle professioni di europeismo venute dalla coalizione secessionista guidata da Artur Mas durante la campagna elettorale di queste infuocate elezioni per il rinnovo del parlamento regionale catalano, non si può certo affermare che questa scossa sismica non sia sottilmente legata al vento che tira in molti paesi dell’Ue. L’eccezione della Candidatura d’Unità Popolare (Cup), formazione catalana antieuropeista e contraria alla Nato che ha ottenuto l’8.2% dei voti vale a ricordarlo. Per quanto la questione catalana venga da lontano e si accompagni a ragioni economiche ed istituzionali interne alla realtà spagnola, questa spinta elettorale oggi è rinvigorita dall’inerzia del governo di Madrid di fronte ai vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Le ricette eurocratiche di austerity pedissequamente eseguite da Mariano Rajoy ovviamente impediscono, come accade in Italia e in altri stati Ue “sorvegliati speciali”, di effettuare manovre keynesiane di spesa pubblica, di avere la mano libera nei trasferimenti finanziari agli enti locali o in eventuali riduzioni della pressione fiscale.
In questo opprimente clima di sudditanza e di autocensura dei governi nazionali ormai desovranizzati e dopo il crollo delle speranze greche di riscossa maturate con Syriza, perché dunque continuare ad illudersi inutilmente in un recupero della sovranità nazionale quando si può, in tempi più rapidi, strapparne una locale? Il progetto è meno molto ambizioso, certo, ma anche meno utopistico se si ha presente la tenuta dei politici al momento sulla scena. Il sospetto che il giovane e imberbe Pablo Iglesias e il suo fresco movimento popolare Podemos, dopo roboanti campagne di autodeterminazione nazionale militate in primavera a fianco dei greci, una volta vinte le elezioni il prossimo dicembre offra lo stesso miserevole spettacolo del governo di Alexis Tsipras ha probabilmente rinforzato l’adesione popolare ai partiti catalani che caldeggiano una rapida secessione di Barcellona dal Regno di Spagna.
Il piccolo episodio catalano sembra inquadrarsi nel contesto più vasto della grande ondata di sfiducia degli elettori europei negli stati nazionali e, soprattutto, nella politica dei partiti tradizionali che hanno dominato la scena a partire dal secondo dopoguerra. Proprio le ultime elezioni greche hanno mostrato una diserzione di massa delle urne (ha votato un greco su due). Risultato che, al di là della risicata prevalenza di Syriza (ora salutata da entusiastici tweet degli eurofalchi Dijsselbloem e Shulz!), costretta comunque a ribadire l’alleanza con i conservatori di Anel, si è caratterizzato per l’inedita scomparsa dallo scenario politico greco del Pasok. Il partito socialista che ha governato il paese per quarant’anni in alternanza con il centrodestra, alle ultime elezioni di settembre ha ottenuto poco più del 6%. Non è sparito del tutto soltanto grazie ad un accordo elettorale con Dimar, la Sinistra democratica, nata dalla scissione di Synaspismos, partito da cui si è originata Syriza. La storica colonna del socialismo europeo in Grecia si è sgretolata. In questo scenario di sfiducia e astensionismo Alba Dorata, la cui dirigenza è letteralmente dietro le sbarre, è diventato il terzo movimento politico ellenico con oltre il 7%. In Inghilterra si assiste all’elezione di Jeremy Corbyn alla guida del Labour, da sempre l’anti-Blair, un militante anti-Nato che ha affermato “la Nato doveva essere sciolta con la caduta del muro di Berlino e la fine del patto di Varsavia”. Un’altra colonna del socialismo europeo che stavolta, però, affronta una metamorfosi interna per non scomparire, dopo l’impopolare cura euro-atlantica imposta negli anni di Tony Blair e dell’intervento militare inglese in Iraq. Soltanto in Italia il blairismo è ancora di moda e infatti Renzi non ha mancato di bollare pubblicamente la vittoria di Corbyn come atto si autolesionismo di un partito che si vota alla sconfitta.Corbyn-800x500Per Renzi bisogna vincere le elezioni e non fare politica, l’immediato profitto elettorale viene prima di qualità, contenuti, strategia e visione di lungo periodo della società che si intende governare. È la mentalità borsistica applicata alla politica, quella dei dati sui profitti trimestrali delle società quotate che orientano i mercati finanziari in continue oscillazioni come fossero branchi di pesci impazziti. Che la “volatilità elettorale”, per utilizzare un termine mutuato dai mercati, sia dovuta proprio ad anni di moderatismo inetto e non al radicalismo politico, che al contrario del primo in questa fase paga enormemente di più in termini di crescita dei consensi, non sfiora la mente di Renzi neanche per un istante. Il ragionamento che ha portato l’ex rottamatore a questa pubblica boutade, ripresa da tutti i quotidiani britannici, oltre a finalità interne al partito è legato ad uno schema vecchio. Le elezioni, infatti, si “vincevano al centro” negli anni Novanta, quando le tasche erano piene, la classe media godeva di un discreto benessere, l’austerità era un proposito per l’anno nuovo e i popoli del Sud del mondo, anche quelli più disgraziati, tendevano per lo più a restare nel proprio paese. Capire il momento storico attuale, lo spengleriano zeitgeist, è uno sforzo che va al di là alle sue capacità.  Così, appena i sondaggi mostrano l’inevitabile incrinatura, deve promettere il taglio dell’imposta sugli immobili, esagerare una ripresa economica che nei fatti nessuno ancora vede, bacchettare televisioni e giornali quando forniscono dati diversi da quelli vagheggiati dal governo e bollare come pessimisti e gufi gli avversari dello storytelling. Poco importa che il jobs act porti il timbro di vidimazione della Cancelleria tedesca, perché tanto l’incessante marketing mediatico e i battiti di ciglia delle ministre carine riusciranno a coprire la realtà con la fiction. Ma la realtà continua a ricordare a chi ha memoria che Renzi non è stato neanche eletto ed è alleato con Alfano, sostenuto da una maggioranza che si regge su ex montiani, ex berlusconiani di Verdini, nel terzo governo italiano di “larghe intese” costruito per volontà di Napolitano al fine di arginare l’ascesa del movimento di Beppe Grillo. É utile ricordarlo perché tutti in Italia fanno finta di esserselo dimenticato.
Una sveglia dal torpore potrebbe venire da un rapporto del Parlamento europeo pubblicato da “Limes” che stila una classifica dei paesi dove l’euroscetticismo è stato più presente negli ultimi due anni confrontando le percentuali dei voti ottenuti da movimenti e partiti nemici dell’euro in consultazioni nazionali o europee. Medaglia d’oro: l’Italia con il 37,6% dei consensi, dati complessivamente a M5S e Lega Nord alle scorse elezioni europee. Segue la Polonia con il 34,76 % dei consensi ottenuti dal partito Diritto e Giustizia di Andrzej Duda eletto poi Presidente al secondo turno. Di seguito è menzionata la Grecia di Syriza che ora faticheremmo a definire antieuropeista, mentre al quarto posto si pone la Francia con il Fn della Le Pen al 22.2%. Infine seguono in ordine Danimarca, Austria e Finlandia. Diverte constatare che il paese che ha ospitato la firma del Trattato di Roma, istitutivo della CEE nel 1957 sia anche quello che oggi più di tutti gli altri vorrebbe liberarsi della morsa eurocratica. Siamo i primi antieuropeisti d’Europa e nessuno lo dice. Secondi solo all’Ungheria di Orban che però nella moneta unica non è mai entrata e anzi se ne guarda bene. Se questo semplice dato fosse ripetuto ogni giorno su tutti i telegiornali con la stessa forsennata costanza con la quale il renzismo fa i suoi gargarismi quotidiani, dell’Ue non ci sarebbe più traccia. Comandare è far credere, aveva ragione Niccolò Machiavelli, motivo per cui gli italiani probabilmente continueranno a votare Lega e Cinque Stelle facendosi però convincere da Riotta e Lilli Gruber di essere lo stesso grandi tifosi dell’Ue. Anzi, il popolo più europeista d’Europa! È il muro di gomma dei mass media a generare questa ipnosi collettiva. Complessivamente il calo di consensi ai partiti delle due famiglie politiche europee che reggono la farsa del finto bipolarismo (Ppe-Pse) è vistoso e apparentemente irreversibile. Se la sinistra inglese per non morire si radicalizza, Cameron tallonato elettoralmente da Farage ha dovuto concedere agli inglesi un referendum per rimettere in discussione l’adesione del Regno Unito all’Ue.

2015-07-07t175558z_1737681379_gf10000151659_rtrmadp_3_eurozone-greece_6e3bea53ae7121875da86ccb4d533314.nbcnews-ux-2880-1000I socialisti di Hollande in Francia sono elettoralmente annichiliti quanto i loro colleghi greci, mentre dall’altra parte Nicolas Sarkozy cerca di accordarsi con loro sui candidati alle prossime elezioni politiche e in modo da arrivare al secondo turno delle presidenziali con in mano un accordo che impedisca a Marine Le Pen di diventare Presidente della Repubblica nel 2017. Si gioca di rimessa ormai, organizzando tattiche di contenimento per arginare l’avanzata del nemico esistenziale. Senza grandi idee. In Germania governa la grande coalizione, cioè le larghe intese, mentre in piazza raccolgono consensi crescenti Pegida e Alternative Für Deutschland. Il panorama è uniforme: nessun partito democristiano moderato, socialista riformista o liberale può tornare a governare da solo un paese europeo. La maggioranza degli europei non si fida più di loro e della loro finta contrapposizione. La rappresentazione teatrale su cui si è retta per anni l’Ue non regge più, non è credibile e gli spettatori un tempo inerti cominciano a fischiare gli attori. La crisi economica ha certamente influito su questo risultato, riducendo le capacità corruttivo-clientelari di questi grandi partiti di massa interclassisti, ma è anche diventato troppo evidente alla prova del governo nazionale che essi seguono direttive prefissate, rispondendo ad assetti geopolitici sovraordinati al di là di quello che possono promettere in campagna elettorale. Si tratta di un dato ormai storico.
Nel lontano 1981 Andreas Papandreou diete vita al primo governo socialista nella storia greca dal 1924. Aveva promesso in campagna elettorale il ritiro della Grecia dalla Nato e dalla Comunità Economica Europea. Una volta al potere cambiò posizione rispetto ad entrambe le istituzioni. Non vi ricorda il percorso di qualcuno nella recente trattativa sul debito affrontata con la Troika europea? Certo, almeno Papandreou ebbe la decenza di non indire un referendum sostenendolo con una campagna enfatica per poi rinnegare tutto e venire a patti con il nemico appena si chiudono le urne (la guerra fredda imponeva uno stile). Anche i socialisti spagnoli vinsero le elezioni pronunciandosi espressamente contro l’allora recente ingresso della Spagna nella Nato. Ingresso poi regolarmente confermato ad urne chiuse dal governo socialista di Felipe Gonzales. La sostanza non cambia, il gioco del prometti e subito dopo rinnega ormai è scoperto. E si meravigliano che la gente non li voti più? Una volta al governo e ovunque vi siano stati, socialisti e popolari europei erano e sono tutt’ora pronti: ad applicare le ricette di austerità della troika; a precarizzare il lavoro e deprimere le retribuzioni onde “cinesizzare” i lavoratori europei al fine di provocare un ritorno di capitali dai paesi emergenti (magari accelerando tale processo con una bella iniezione di lavoratori immigrati); dare maggiori poteri alle banche (partecipazione dei correntisti alle perdite della banca attraverso il meccanismo europeo del Bail-in); deregolamentare il mercato per esaudire ogni richiesta delle multinazionali (si veda il sostegno unanime al TTIP); partecipare alle sanzioni contro stati sovrani colpevoli di essere tali al contempo essendo anche possessori di materie prime, e, infine, sostenere le campagne militari del Pentagono sempre anticipate da incessanti campagne massmediatiche di mistificazione umanitaria (come nella migliore tradizione del “bipensiero orwelliano”). Berlusconi nel 2011 su pressione “anglo-franco-napolitana” ha dovuto pugnalare alla schiena in mondo visione l’amico Gheddafi, il leader berbero che un paio di anni prima di vedere Tripoli sommersa da una pioggia di missili Cruise aveva dormito in una tenda a Villa Pamphili tra amazzoni e felliniane parate di beduini. Sono traumi collettivi che restano nella memoria e sedimentano una sfiducia destinata ormai a diventare il fattore elettorale permanente.
Prepariamoci ad anni di astensionismo, secessionismo, populismo sempre più aggressivo ed efficace. In varie forme, assisteremo ad una lunga lotta per la sovranità dei popoli. L’inconsistente Europa degli Hollande, Rajoy e Renzi è troppo debole per resistere a questo costante sgretolamento politico ed elettorale. Non li ha salvati l’effetto emotivo generato dalla strage di “Charlie Hebdo”, non li salverà l’ottimismo forzato di Renzi né la campagna mondiale di denigrazione montata contro Victor Orban in occasione della costruzione del muro ungherese anti-immigrati, con tanto di riesumazione dai sarcofagi della storia della vecchia retorica antifascista da usare come estintore in caso di emergenza. Le fiamme stavolta sono tropo alte. Non funziona.

LA TRANSILVANIA ASPETTA ROMA. COME TUTTA L’EUROPA

di Leonardo Petrocelli

Ci sono alcune categorie professionali cui – in sporadici casi – si finisce per conferire un’aura quasi filosofica, da profondi conoscitori di luoghi e animi umani. Sono i meccanici che “aggiustano” i clienti maldestri con la stessa perizia con cui trattano le macchine. I baristi, vittime designate, quasi hollywoodiane, degli sfoghi piagnucolosi di mariti traditi e manager naufragati in un bicchiere di whisky. E poi ci sono i tassisti, ob torto collo costretti a misurarsi con l’immondezzaio dell’umanità postmoderna che sale e scende dalle loro vetture, ma spesso generosi di racconti e riflessioni dispensati gratuitamente a beneficio degli sciatti avventori. E allora capita di incontrarne uno, uno dei migliori probabilmente, Valentin, nel luogo più impensabile: a Brașov in Romania. E di farsi scarrozzare da lui per quasi cinquecento chilometri in giro per una delle regioni più affascinanti d’Europa: la Transilvania.
All’inizio l’auspicio è che stia zitto un secondo, che la smetta di sciorinare parole nel suo inglese stentato. Fuori dal finestrino, infatti, si anima un mondo di leggende, castelli, foreste immacolate, nebbie sinistre e calessi che invadono le strade. Sì avete letto bene, calessi. Non è raro infatti che dei carretti guidati da cavalli irrompano sui sentieri di montagna (ma anche sulle statali) imponendo alle macchine di mettersi in coda, in una sorta di spaesamento da viaggio nel tempo fuori programma. A condurli sono i contadini della zona o, più spesso, i rom che, come la vulgata insegna, qui non mancano. Vivono in campagna, prevalentemente, sconfinando con le loro baracche nei campi di qualche povero vecchio e portando al pascolo i loro destrieri denutriti e macilenti. Naturalmente, abbondano anche nelle città e nei piccoli borghi. Qualcuno si sforza di lavorare, si arrangia vendendo le more sui sentieri battuti dai turisti, ma la maggior parte si trascina e mendica come da tradizione, esibendo bambini poi lasciati esausti sui marciapiedi delle strade per l’intera notte.
“I nostri governi, in passato – esordisce Valentin -, sono stati gentili con loro, accogliendoli e sopportandoli. Il risultato è che qui si sono accampati in massa, creando la comunità più numerosa del continente e ora tutta l’Europa pensa che i rom siano rumeni, anche in virtù di quella assonanza tra le parole. Che poi, rom non significa nulla, è un termine che serve solo ad alimentare gli equivoci. Qui li chiamiamo come abbiamo sempre fatto: gypsies o țsigani. E rimangono quelli di sempre, imprevedibili e spesso pericolosi”. L’aria che tira è chiara: i rumeni non amano gli zingari. E lo potete capire dai cartelli che fioccano in ogni dove, dalle stazioni alle fiere di paese:

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Rincuora sapere che, da qualche parte in Europa, il buonismo boldriniano non è ancora dogma di Stato. E tuttavia, proprio in virtù di quanto letto e udito, è facile per un italiano incunearsi nella reprimenda e ricordare all’interlocutore le allegre scorribande peninsulari non solo dei rom, ma di tanti rumeni doc giunti nel Belpaese con intenti devastatori. La replica non si fa attendere: “I rumeni sono brava gente. Il peggio lo spediamo a voi, non c’è dubbio. Piuttosto, si sentono cose terribili sui migranti in Italia, su quell’isola…come si chiama? Lampedusa! Ecco, se dovessi venire al mare da voi, sapreste indicarmi un luogo senza migranti?”.
L’invasione migratoria lo colpisce moltissimo, quasi lo sconvolge. D’altronde, a voler nobilitare il discorso, la sua è una prospettiva squisitamente difensiva e la ragione non è un mistero: la Transilvania è una terra chiusa, cinta da montagne, abituata alla strenua difesa del territorio. Ma anche palcoscenico di un lungo scontro identitario. “I rapporti con l’Ungheria sono complicati – spiega improvvisamente – perché la Transilvania è una terra contesa”. Effettivamente, questa prospera regione, che un tempo appartenne all’Impero Austro-Ungarico, passò alla Romania solo nel 1920 grazie alle disposizioni post-belliche del Trattato del Trianon, spegnendo definitivamente le ambizioni della Grande Ungheria mutilata dalle “potenze plutocratiche”. Lo ricorda spesso, a mo’ di ritornello, il premier Victor Orban che da anni non smette di scaldare i cuori secessionisti della minoranza ungherese, rappresentata dalla battagliera Unione Democratica Magiara di Romania. La guerra interetnica fra le due popolazioni transilvane – con tanto di stragi e “marzo nero” – non è mai stata una scaramuccia da bar dello sport. Eppure, Valentin, rumeno e transilvano doc, per sua ammissione “di destra” e po’ nazionalista, non ha problemi a riconoscere il valore dell’avversario: “Non amo la propaganda di Orban – argomenta -. La Transilvania tutta appartiene alla Romania e qui deve rimanere. Ma una cosa mi piace di lui: sa dire di no agli americani”.
L’apparizione di un vampiro, a questo punto, susciterebbe meno stupore. In Italia – glorioso avamposto del pensiero unico in cui ogni giorno tutti sgomitano per segnalare la propria deferenza all’alleato-padrone – una simile riflessione non la sentireste né in un taxi né, figuriamoci, nell’aula di qualche prestigiosa università. Forse su internet, in qualche anfratto lontano dai bagliori del mainstream, ma niente di più. Qui, invece, è la prima cosa che il nostro chauffeur tira fuori dal cilindro: il no agli americani e al loro mondialismo devastatore. E allora sorge il sospetto che questa sia una specie di eredità degli anni di Ceaușescu e dell’esperienza comunista, una sorta di lascito involontario conficcato nelle menti di tutti. Ci arriviamo subito: “Il comunismo – riprende Valentin – ha fatto cose pessime. Ha spostato la gente in città per poterla controllare meglio (stipandola in orribili casermoni che oggi crollano a pezzi, ndr) e ha inserito i contadini rimasti in gigantesche imprese agricole collettivizzate, incapaci di reggere alla prova del mercato. Casa, lavoro, sicurezza: tutto era vincolato alla fedeltà al partito cui dovevi sottometterti necessariamente. In pratica, una mafia di Stato”. Fin qui storia nota, poi la sterzata. “Ma c’è una cosa in cui il comunismo era meglio del capitalismo. È difficile da spiegare…”. Il discorso, in effetti, si fa confuso. Una sola parola è ripetuta continuamente: soul, anima. “Il capitalismo ti corrompe l’anima – spiega, finalmente -. I rumeni prima non erano come sono oggi: arrivisti, votati al profitto, furbi, infidi, spregiudicati. Erano diversi, più poveri ma umanamente migliori”.
Lo sguardo di Valentin è troppo lucido per essere infarcito di propaganda vetero-sovietica. E le riflessioni fulminanti su Orban e gli americani o sul capitalismo che ti devasta l’anima sono troppo raffinate per derivare dalla televisione o dai quotidiani. C’è qualcosa di più e non è difficile spiegarlo: un popolo che ha vissuto per cinquant’anni sotto una dittatura, buona o brutta che sia, sviluppa fisiologicamente (e conserva per qualche tempo) uno sguardo più penetrante rispetto a chi, nel frattempo, si è cimentato solo con la ricette delle fettuccine o il calciomercato. Si confronta suo malgrado con grandi e piccoli eventi, s’ingegna, si sforza di capire, organizza una resistenza, mette a frutto la propria intelligenza per sopravvivere. Probabilmente è capace di combattere e, soprattutto, è disposto a farlo. Sa che la Storia non è finita e impara che ogni decisione, anche se presa lontano da casa (leggi Yalta), rischia di riguardarlo direttamente. Per cui rimane sveglio. E vivo. A differenza nostra che in settant’anni di democrazia ci siamo addormentati fino a scivolare nel coma. E da quando il collasso del capitalismo reale ci ha buttati tutti giù dal letto, eccoci incespicare con i muscoli atrofizzati e la mente annebbiata, incapaci di capire cosa mai sarà accaduto (sic) mentre russavamo beati, sognando donne, motori e coppe dei campioni. É il grande regalo della “pace”, della guerra lontano dall’Europa, del benessere prospero e narcotizzante che lentamente ha propiziato il “riflusso”, il riassorbimento nel privato o nell’edonismo sciocco delle tribù urbane. Data convenzionale del trapasso italico quel 13 settembre del 1978, giorno in cui il sobrio e governativo “Corriere della Sera” – nel clima ancora tetramente accademico e sociologizzante del tempo – pubblicò la lettera di un cinquantenne prossimo al suicidio perché innamorato di una donna troppo più giovane di lui, aprendo così le cateratte del Nulla Terminale, come da indicazione di tutte le precedenti “liberazioni”. Sessantotto in testa.
Per carità, dopo la fine del comunismo e l’inizio della “rivoluzione”, cioè il transito verso la democrazia, anche ai rumeni è toccata la medesima sorte. Oltretutto in un contesto di devastante spoliazione e di anarchia assoluta che ha sfregiato tutte le ex repubbliche dell’Est, a cominciare dalla Russia dell’era Eltsin. Erano gli anni della Transiberiana caldamente sconsigliata ai turisti e dei treni rumeni, ancora oggi di proverbiale lentezza, assaltati da banditi a cavallo. Ma, di fatto, la loro rincorsa è meno lunga della nostra e mostra i suoi effetti più deleteri solo nelle giovani generazioni. Gli uomini di mezza età, invece, ricordano. Anche fatti lontani. “Alla fine della Seconda Guerra Mondiale – spiega Valentin – il transito della Romania nell’orbita sovietica impose la fine della monarchia. Ma numerosi studenti scesero in piazza in difesa del Re Michele I e allora i comunisti posero un aut aut al sovrano: o lui o loro. O la sua abdicazione o la loro macellazione. E il Re scelse, naturalmente, di salvare i ragazzi. Si trattava di una monarchia senza grandi trascorsi ma seria, solida, amata, di cui si conserva un ricordo positivo. Ed oggi un quarto dei rumeni è dichiaratamente monarchico, nonostante la dinastia sia ormai giunta all’estinzione (il sovrano, ancora vivente, ha solo figlie e nessun erede maschio, ndr)”.
Inutile soffermarsi sullo scarto qualitativo fra generazioni, fra gli anni in cui si scendeva in piazza per il Re e quelli, a noi contemporanei, in cui ci si mobilita solo per i flash mob, il gender e la revolution di X-Factor. In Italia come, presumiamo, ormai anche in Romania. Sarebbe troppo facile organizzare il paragone. Ma la conclamata deriva vero la scimmiesca nullità dell’uomo-massa non è il solo tratto ad accomunarci. “Se penso al Re non posso non pensare anche al nostro Presidente della Repubblica, Klaus Werner Iohannis – riprende Valentin – . È un sassone, praticamente un tedesco. Tutto quello che la Merkel comanda, lui lo fa. Prendiamo ordini dai tedeschi e dagli americani. E le esigenze della Romania? Non interessano a nessuno. Qui non c’è più differenza fra destra e sinistra, sono indistinguibili. Noi li votiamo e loro si fanno i fatti propri, prendendosi un sacco di soldi sugli appalti pubblici e fregandosene del popolo. Persino la Chiesa Ortodossa è squallidamente corrotta. Io ho fatto il mio dovere di cittadino per anni, ma ora basta. Ho chiuso”.
E così, lamento dopo lamento, siamo arrivati al punto. A parte i riferimenti specifici a Iohannis e alla Chiesa Ortodossa il discorso qui riportato potrebbe essere tranquillamente pronunciato da un italiano. O da un francese o da un portoghese. È la denuncia di un malessere che abbraccia tutto il continente, da Lisbona a Sofia, e non è nemmeno sconosciuto in America, dove il Presidente è eletto solitamente con i voti di appena un quarto della popolazione. Che nome possiamo dargli? Scoramento, disillusione, abbandono? No, è la crisi terminale del Potere apparente, della democrazia portata in trionfo dal Progresso e dagli idoli di un “tempo nuovo” ormai smascherato nella sua più intima menzogna. Oltre la quale campeggiano impuniti i gargoyles della tecnocrazia e del dominio reale, per quanto vacillante, sull’esistente.
Si potrebbe presumere, a questo punto, che il nostro Valentin, uomo solido e addestrato alla pugna da tanti anni di regime e dal caos della democrazia, sia pronto ad imbracciare le armi e rovesciare il sistema in cui non crede più. E invece no. La sua soluzione è un’altra: “Mi piacerebbe vivere in assoluta autonomia – conclude non senza un velo di rabbia -. Comprare una casa in campagna, coltivare la terra e allevare animali, mangiare il cibo che produco e procurarmi l’energia necessaria attraverso i pannelli solari o altri sistemi. Voglio essere indipendente, completamente. E quando lo Stato verrà a bussare alla mia porta, gli dirò di rivolgersi al vicino. Perché io non ho più ho nulla da dire a questi signori”. Eccola qua, un’altra costante d’Europa: il sogno incapacitante dell’autarchia individuale, caldeggiata e foraggiata – anche tecnicamente – da buona parte del pensiero sociologico alternativo. Decrescita in testa. Ma, nella realtà, tutto questo si traduce in un romantico ammutinamento nell’ottusità della terra, in una rinuncia volontaria ad accedere al prezioso mondo delle possibilità. È la castrazione di quella che tradizionalmente si definisce “immaginazione divinizzante”, cioè la facoltà di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Di certo, Valentin non immagina più nulla – se non un utopistico piano di fuga per sé stesso – ma, forse, da qualche parte nel profondo della coscienza, non ha rinunciato ad aspettare ancora qualcuno o qualcosa che si desti e faccia un passo, disegnando quell’orizzonte che lui non è più capace di rappresentare. Valentin non lo sa, ma aspetta Roma.

QUEL VIZIO OSCURO DELLA SINISTRA

2

di Gaetano Sebastiani

Alzi la mano chi tra gli euroscettici di ogni sfumatura non aveva intravisto nel referendum greco dello scorso 5 luglio la possibilità di dare fiato ad una voce che spesso è appena percettibile. Ma quella stessa voce che ad Atene aveva urlato “OXI” è stata immediatamente silenziata a Bruxelles, con la collaborazione fondamentale proprio di chi a quell’urlo aveva dato finalmente modo di echeggiare.
Le responsabilità di Tsipras, in questo stucchevole voltar le spalle alla volontà nazionale e sottoscrivere un accordo peggiore di quello che si era ripudiato con il voto, sono ancora più gravi di quanto certe forze politiche contigue sono disposte ad ammettere, perchè trovano nutrimento nell’illusione storica che la Sinistra sia la naturale rappresentante delle esigenze popolari.
Quel vizio oscuro di essere suadenti con le masse e stringere accordi nelle segrete stanze del potere che si vorrebbe combattere proprio non si riesce a perderlo. Non ce l’ha fatta la sinistra storica, quella imbevuta di marxismo, che doveva condurre le classi operaie verso il radioso futuro comunista senza Stato, nè padroni e che, incapace di accorgersi di essere fatta della medesima sostanza materialistica del Capitale, ha finito per essere depotenziata e fagocitata dal suo stesso antagonista. E non ce la fa oggi la sinistra moderna, quella post-ideologica, tutta buonismo, diritti civili e genderismo, ennesimo, subdolo cavallo di Troia di un sistema di potere che deve omologare l’uomo fin nella sua essenza più intima per poterlo dominare a suo piacimento. Anche in questo e, ancora una volta, a braccetto col “nemico”.
Sulla base di questo approccio illusorio ed ambiguo, la portata simbolica della pugnalata ai greci, dunque, acquisisce una valenza ancor più eclatante perchè è avvenuta attraverso uno dei trademark della Sinistra, il referendum. Grazie a quanto avvenuto dopo il 5 luglio abbiamo capito, una volta di più, che la volontà del demos innanzitutto non trova alcuna cittadinanza nelle sedi decisionali della nostra “cara” Europa ed, inoltre, che la sponda politica teoricamente più vicina alle istanze popolari, con una piroetta degna del miglior Roberto Bolle, rinnega le sue stesse iniziative. La patria della democrazia, dunque, si riscopre succube delle oligarchie, paradossalmente proprio a causa di chi a quel principio si era appigliato per salvare la nazione.
Ed ora tocca al popolo greco scontare le conseguenze più tragiche del voltafaccia del suo premier. Prima di tutto, ecco servito il solito rimescolamento della compagine governativa per compiacere gli aguzzini della Troika. In secondo luogo, si applicherà un pacchetto di riforme ispirate al dogma dell’austerity con l’appoggio di quelle forze politiche che negli ultimi anni hanno contribuito potentemente ad affossare la Grecia e che Syriza diceva di voler relegare nel dimenticatoio. Cosa c’entra tutto questo con gli annunci iniziali ed ormai sbiaditi di Tsipras? Che cosa c’entra l’attuale assetto parlamentare con l’esito delle urne? Al di là delle contingenze del presente, delle pressioni delle istituzioni europee e delle responsabilità dei singoli attori ellenici le ragioni dello scollamento tra Tsipras ed il suo popolo sono figlie di quel vizio oscuro che costituisce il filo conduttore della Sinistra nelle scelte nodali tra potere e difesa delle masse.
E chissà che questa atavica doppiezza non sia il viatico per sbriciolare sedimentate convinzioni, rimettere le idee a posto e convogliare le nuove energie liberatesi da queste stantie convenzioni verso nuove forme di rappresentanza politica, più aderenti agli interessi popolari.