IL DISCORSO DI PUTIN AL VALDAI

Aprite il giornale (o i social, è uguale) e leggete le dichiarazioni di Renzi, Berlusconi, Vendola, Alfano. Allargate lo sguardo all’Europa e curiosate fra le affermazioni di Merkel, Hollande, Cameron, Junker. Poi collegatevi a qualche sito d’informazione americano e date un’occhiata a ciò che ha detto Obama. Infine, se siete ancora vivi, leggete quanto vi postiamo di seguito e meditate sulla differenza. Sono i passi fondamentali del recente discorso (24 ottobre) pronunciato da Vladimir Putin al Valdai International Discussion Club, storica cornice di confronto sul ruolo della Russia nel mondo. Siamo desolati, non è un tweet, non è una battuta e nemmeno una barzelletta. Non ci sono slides, gelati o fuochi d’artificio. È  il discorso di un vero Capo di Stato, forse l’unico in piedi, al momento, fra le rovine della baracconata globale. A corredo, dopo il testo, il commento video di Giulietto Chiesa per Pandora Tv.

Egregi colleghi! Signore e signori! Cari amici! (…)

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Tra mondialisti e westfaliani, aspettando l’Europa

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Non sappiamo se in Cina, sui banchi di scuola, si studi la Pace di Westfalia del 1648, quella che pose termine alla guerra dei Trent’anni e inaugurò un nuovo ordine internazionale, basato sul mutuo riconoscimento fra stati sovrani. Eppure si dovrebbe perché proprio quel principio, lì sancito, potrebbe essere posto alla base di una eventuale alleanza fra tutti i paesi non allineati sul fronte dell’egemonia americana. All’opposto dell’accordo westfaliano, infatti, c’è l’idea mondialista, ‘wilsoniana’, di un ordine globale imperniato su libertà mercantili e diritti (leggi ‘sradicamento dell’uomo’), con gli Stati Uniti nel ruolo, più esteriore, di arbitri e giudici, a tutto campo, delle altrui vite e vicende.

Inutile dilungarsi sulla parzialità del controllore e sulla discrezionalità dei giudizi, ormai nota a tutti. Più interessante è ragionare sulla contrapposizione dei modelli. Perché se il secondo è il frutto di una strategia elaborata e pianificata, l’approdo, ormai declinante, di una lunga rincorsa, il primo è (ri)sorto spontaneo con il risveglio della Russia dopo le nebbie alcoliche dell’era Eltsin. Avendone rilanciato il ruolo di potenza che pretende per sé, e i propri alleati, la necessaria libertà di manovra, Putin si è ritrovato ad essere, come giustamente è stato scritto, “il garante di Westfalia”. Cioè colui che esige ed afferma il principio di “sovranità” in un contesto in cui, invece, si pretende che ogni passo sia conforme alle pretese dei molteplici attori del mondialismo. E, quando così non è, bruciano le polveri della “guerra per interposta persona”, con ribelli armati, fondamentalisti religiosi, femministe a seno nudo, blogger prezzolati, attivisti di ogni sorta e intellettuali di tutte le risme convocati, in gran fretta, per fare in modo che l’eretico di turno sia rovesciato immediatamente fra gli applausi del mondo.

Fin qui è storia nota. Ciò che inizia a rendersi evidente è che il principio di sovranità non è più una pretesa esclusivamente russa. Rimasta apparentemente ai margini di ogni contesa, anche la Cina è posizionata sugli stessi orientamenti e la crisi ucraina sta avendo l’effetto di spingere Mosca ad abbracciare Pechino, riconoscendo nel vicino di casa un interlocutore “di fatto”. In realtà, Russia e Cina – diversamente da quanto molti immaginano – non sono alleati naturali: a dividerli, fra le altre questioni, c’è il gigantesco problema della “Siberia cinese” cioè dell’invasione mandarina in una terra liminare, ricca di risorse, in cui, fra qualche tempo, non si parlerà quasi più russo. Ma questa sarà questione di domani. Oggi bisogna fermare Washington e tutti i marionettisti nascosti nell’ampio cilindro dello Zio Sam. E quindi via con le grandi manovre di avvicinamento, con la prima trasferta da presidente di Xi Jinping proprio a Mosca, e con la conta dei futuri nuovi sodali: India, Brasile, Sudafrica, Messico, Nigeria, Indonesia. “Sebbene tali potenze emergenti – scrive su Limes Eva Hulsman Knoll – non abbiano quasi nulla in comune, esse condividono un forte spirito nazionalistico e percepiscono l’attuale ordine internazionale come funzionale agli interessi delle ex potenze occidentali”. E, quindi, tutti dentro.

Ora, sebbene possa essere naturale entusiasmarsi per questo inedito fronte in rivolta, è bene considerare tre cose. La prima è che questi paesi propongono un modello esattamente identico a quello americano, solo colorato in altro modo. La nuova gioventù metropolitana di Pechino che mangia pollo fritto, beve Coca-Cola, veste all’occidentale, siede nei cda delle grandi imprese e specula in borsa, forse non prenderà ordini dai Rothschild, ma non offre una alternativa migliore. Si distingue solo la Russia, come testimoniato dal notevole discorso di Putin al Club Valdai, ma il resto è noia crepuscolare da cui tenersi alla larga. La seconda è che la presenza di un nemico, uguale e contrario, potrebbe essere, per il fronte mondialista, perfino un regalo della Provvidenza nella misura in cui un avversario, che non contesta il ‘sistema’ ma solo i rapporti di forza all’interno dello stesso, risolve in definitiva un bel po’ di guai consentendo di rilanciare il gioco oltre la sua fisiologica estinzione.

La terza osservazione, la più importante, è che rispolverare il mito di Westfalia non è la risposta a tutto questo: il nazionalismo rancoroso ed isolazionista, che si accartoccia in cortile e vive per difendere due gocce di petrolio trovate in cantina, è la mortificazione di ciò che può condurre alla edificazione di una Civiltà, in nulla debitrice a quella vigente e orientata su principi altri. La Russia, incapace storicamente di proiettarsi al di fuori dei confini della Federazione, non riuscirà a costruire l’alternativa nonostante la felice marcia del suo leader. Per questo serve che si risvegli l’Europa. Dispiace per chi ha già il colbacco in testa, ma i cosacchi non verranno a salvarci.

AMERICAN HISTORY X (Capitolo Ucraina)

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Domanda: chi sono e da dove vengono i neonazisti che guidano la rivolta ucraina? Anche all’orecchio dell’osservatore più distratto sarà giunta, seppur per brevi cenni, la storia di Stepan Bandera, il leader dell’OUN-B (Organizzazione dei nazionalisti d’Ucraina) che collaborò con Hitler al tempo dell’invasione tedesca in Unione sovietica, salvo poi essere rimosso e deportato dall’alleato germanico dopo la proclamazione di indipendenza dello Stato ucraino, non gradita a Berlino. Dunque, si potrebbe desumere che una cellula dell’antica organizzazione sia sopravvissuta fino ad oggi, mantenendo accesa la fiaccola del nazionalismo più crudo e riapparendo, più di venti anni fa (1991), nelle vesti del partito “Svoboda” che oggi capeggia la rivolta di Piazza Majdan in un oceano di svastiche, teste rasate, croci celtiche, saluti romani e professionismo paramilitare.

La storia, in realtà, è più complicata di così. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, Bandera non si ritirò in buon ordine né visse da clandestino in patria, ma iniziò una nuova vita collaborando con i servizi segreti occidentali. Due su tutti: il britannico MI6 (dal 1948 al 1955) e il tedesco BND, dal 1956 fino alla morte, avvenuta tre anni dopo ad opera di un sicario del KGB. La sua carriera, quindi, si concluse in poco più di un decennio e senza grosse implicazioni, ma rimane significativa per comprendere in che modo i nazisti ucraini tentarono di riciclarsi e rendersi utili alla causa dei vincitori.

Meglio di Bandera, fece Mykola Lebed, capo della polizia segreta dell’ONU-B, che dopo un breve tratto di strada compiuto insieme al suo ex leader, collaborando alle operazioni di sabotaggio MI6 in territorio russo, decise di porsi al servizio del gigante più solido: la CIA. E lo fece creando una organizzazione di facciata, la Prolog Research Corporation, che operò indisturbata fino agli Anni Novanta con tanto di benedizione dello stratega e consigliere di Carter, Zbigniew Brzezinski. Fra i più attivi collaborazionisti con il colosso dello spionaggio americano si segnala anche Theodore Oberlanderg, ex capo del famigerato battaglione “Nachtigal” che giocava al tiro al bersaglio con qualunque “giudeo, russo o russofono” osasse comparire nel suo raggio d’azione. Durante un ciclo di conferenze, il militare s’imbatté in una avvenente ragazza ucraino-americana e ne diventò “padre spirituale”, condizionando profondamente la sua visione politica.

La fanciulla in oggetto, e ci avviciniamo all’oggi, è Kateryna Chumachenko, nata nel 1961 a Chicago da genitori ucraini immigrati negli States grazie alla mediazione della Chiesa Ortodossa. Ma questo non tragga in inganno. Fin da ragazza, la Chumachenko si legò, in barba all’ortodossia genitoriale, alla stravagante Chiesa Nativa della Fede Nazionale Ucraina, una setta dai nebulosi contorni impegnata nella propaganda di idee neonaziste. Il Tempio della congrega era a Chicago, vicino all’organizzazione dei nazionalisti Ucraini “Alleanza Nazionale” e alla locale sede dell’OUN-B di cui, ci racconta Giulietto Chiesa, Katy fu una indomabile attivista. In più, la nostra divenne presidente del “National Captive Nations Committee” e presidente della sezione di Washington dell’ “Ukrainan National comitte of America” (UCCA), un gruppo ispirato dal pensiero e dall’azione di Jaroslav Stetsko, braccio destro di Bandera.

Fin qui nulla di troppo strano. Una pasionaria neonazista, particolarmente infervorata e capace, che urla e sgomita all’interno di organizzazioni banderiane, serenamente incistate nel ventre dell’America democratica e rassicurate dallo sguardo sovrano e interessato della CIA. Ciò che appare incredibile è invece tutto l’altro segmento del curriculum della Chumachenko, impiegata dal 1986 al 1988 presso l’Ufficio del Dipartimento di Stato Americano nella Sezione Diritti Umani – lo stesso Dipartimento della Nuland, quella che ha dato 5 miliardi ai rivoltosi di Kiev -, alla Casa Bianca durante l’amministrazione Reagan (1988), al Tesoro sotto la governance di Bush senior (1989) e infine cofondatrice dell’Ucraina-Usa Foundation nel 1992. In una manciata di anni, ha frequentato tutti i pezzi grossi, da Clinton al Segretario della Nato Javier Solana.

Con Bush jr

Con Bush jr

Con Clinton

Con Clinton

Con Solana

Con Solana

Non c’è che dire, una carriera straordinaria per una nazistella di periferia, figlia di immigrati e adepta di una setta. E non è tutto. Perché poco dopo Kateryna diventerà la seconda moglie del presidente ucraino e banchiere di origine ebraica Viktor Yushenko, il predecessore di Yanukovich, eletto subito dopo la “rivoluzione arancione” del 2004 e copiosamente finanziato da Soros e dalle Ong di mezzo mondo. Ci sono due versioni diverse circa l’incontro che Cupido propiziò fra i due: alcuni sostengono che avvenne casualmente in aereo, altri ricordano che la Chumachenko fu spedita a lavorare come consulente bancaria, per un breve periodo, in uno degli istituti dove operava Yushenko, il KPMG Peat Marwick/ Gruppo Barents. In ogni caso, gli americani gliel’hanno messa nel letto e lei ha svolto egregiamente il suo compito condizionando le politiche del marito e convincendolo, ad esempio, a proclamare nel 2010 Bandera eroe nazionale.

Dunque, ricapitoliamo. Finita la guerra, gli americani misero a libro paga i nazisti ucraini in funzione antisovietica e accettarono di ospitare sedi e strutture affinché la loro ideologia sopravvivesse nei decenni a venire, ben consapevoli che quella riserva di fanatico odio anti-russo sarebbe venuta utile prima o poi. Così, decisi a strappare l’Ucraina all’area di influenza Russa, hanno pensato bene di giocare su due tavoli: da un lato agitando le bandiere di libertà e democrazia (la rivoluzione colorata) e dall’altro riattizzando il nazionalismo ucraino (la risalita di Svoboda et similia). L’ex première dame Kateryna Chumachenko è stata l’incarnazione perfetta della sintesi fra queste due anime apparentemente antitetiche, eppure capaci di conciliarsi, strumentalmente, in una sola persona. Nazista ma sposata con un banchiere ebreo, nazionalista ma al servizio del potere atlantico, devota seguace di macellai ma zelante impiegata presso la Sezione Diritti Umani del Dipartimento di Stato americano, Lady Katy è la figura simbolo della geostrategia sovversiva americana. Non è una goccia nell’oceano del caos, guai a pensarlo. Lei è il metodo. Il metodo strabico della sovversione impazzita.